Sulla giusta interpretazione della nozione di interferenza
Torna la Corte di Cassazione in questa sentenza a esprimersi in merito alla nozione di interferenza fra le imprese e fra queste e i lavoratori autonomi, ai fini dell’applicazione dell’art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 riguardante gli obblighi di sicurezza sul lavoro connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione e quindi gli obblighi di coordinamento e cooperazione così come riconducibili al comma 1, lettera b), e comma 3 dello stesso art. 26, con riferimento alla posizione del committente, ed al comma 2, lettere a) e b), con riferimento alla posizione dell’appaltatore e del subappaltatore. Lo aveva già fatto in precedenza la suprema Corte e fra le tante sentenze si richiama la n. 44792 del 9 novembre 2015 della IV Sezione penale commentata dallo scrivente sul quotidiano del 7/3/2016.
La nozione di interferenza tra impresa appaltante e appaltatrice, ha ribadito la Corte di Cassazione in questa sentenza in commento non può ridursi alle sole circostanze che riguardino “contatti rischiosi” tra il personale delle imprese ms, contrariamente a quanto in molti credono, deve necessariamente ricomprendere anche tutte quelle attività preventive poste in essere nella fase antecedente ai contatti rischiosi stessi e riferirsi necessariamente alla coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi.
Se l’interferenza fosse infatti limitata alle mere ipotesi di contatto rischioso tra lavoratori di imprese che operano nel medesimo luogo di lavoro, ha infatti sostenuto la suprema Corte, ciò condurrebbe ad escludere in capo a quei committenti che forniscono il mero luogo di lavoro qualunque posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori che, pur essendo alle dipendenze di altre imprese, operano in quel luogo di lavoro. Gli obblighi di sicurezza quindi, ha precisato la Corte di Cassazione, devono essere adempiuti anche nella fase prodromica all’esecuzione dei lavori, allorché il dovere di coordinamento obbliga i responsabili ad esigere l’allestimento delle protezioni.
In sostanza, ha quindi evidenziato la Cassazione, il personale della ditta appaltatrice ancorché operi autonomamente nell’ambito del luogo di lavoro dell’appaltante, deve essere posto, a cura dello stesso, in condizioni di conoscere preventivamente i rischi specifici inerenti alle lavorazioni conferite in appalto in contro ai quali può andare in quel luogo di lavoro affinché possa regolarsi di conseguenza. A norma dell’art. 26, comma 2, inoltre, ha ribadito la suprema Corte, l’appaltatore e il subappaltatore sono tenuti a richiedere al committente il documento di valutazione dei rischi interferenziali (Duvri) e, qualora ricevano risposta negativa, a sopperire personalmente all’individuazione del rischio, collaborando con il committente.
L’evento infortunistico e l’iter giudiziario
La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto la pena e ha confermata per il resto la declaratoria di responsabilità di un committente datore di lavoro e del datore di lavoro di un’impresa appaltatrice per il reato di omicidio colposo in danno di un autista dipendente dell’impresa stessa, aggravato per la violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Secondo la ricostruzione della dinamica fatta nei giudizi di merito la mattina dell’infortunio l’autista si era recato, assieme a un collega, nello stabilimento del committente presso il quale doveva svuotare il silos contenente trucioli di legno. I due operai avevano posizionato il cassone del camion sotto l’imbocco del silos, che conteneva il materiale di scarto della lavorazione del legno il quale, attraverso due botole quadrate situate all’estremità inferiore, veniva raccolto direttamente per essere poi trasportato fino allo stabilimento della ditta appaltatrice dove doveva essere riciclato nella produzione di pallets. In particolare l’infortunato era all’interno del cassone quando veniva travolto dalla repentina caduta del materiale, da cui rimaneva schiacciato e completamente sepolto, con conseguente decesso per asfissia meccanica violenta da soffocazione indiretta.
La Corte territoriale, alla luce di quanto emerso dalle indagini, aveva addebitato al committente e al datore di lavoro della ditta appaltatrice, condotte di cooperazione colposa poste alla base dell’evento, per non avere gli stessi adempiuto all’onere di informazione sui rischi specifici dell’ambiente di lavoro e per non aver promosso e realizzato la cooperazione e il coordinamento fra le rispettive ditte per l’attuazione delle misure di prevenzione dai rischi dell’attività data in appalto e dai rischi interferenziali. In particolare al committente era stato addebitato di non aver messo a disposizione attrezzature sicure e di non aver redatto il Duvri per la valutazione dei rischi interferenziali e al datore di lavoro della vittima dell’infortunio di non aver fornito al lavoratore una adeguata e specifica formazione e di non avere messo a disposizione dello stesso adeguati strumenti di lavoro.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza della Corte di Appello i due imputati hanno proposto distinti ricorsi per cassazione. Il committente, in particolare, si era lamentato nel ricorso per avere la Corte territoriale considerata attendibile la testimonianza del collega dell’infortunato, unica persona presente al momento dell’accaduto, il quale in aula aveva data una versione dei fatti contrastante con quella descritta nelle s.i.t. rese durante le indagini, versione in contrasto tra l’altro con gli elementi probatori acquisiti, quali il mancato rinvenimento del forcone asseritamente utilizzato dall’infortunato per lo scarico del materiale; l’abbigliamento del collega. il giorno dell’infortunio, non vestito da lavoro e totalmente pulito, come riferito da altri testi e la condotta dallo stesso tenuta subito dopo lo “scarico fatale”, secondo cui questi aveva chiesto aiuto, dimostrando di non sapere dove si trovasse il suo collega, elementi indicativi del fatto che la botola del silos potesse essere aperta solo dall’esterno del cassone e che l’unico che potesse averlo fatto fosse stato proprio lui.
Il committente ha denunciata altresì l’insussistenza di una effettiva interferenza tra i lavoratori delle due ditte stante l’intervenuto accordo secondo cui il prelievo del materiale dal silos avvenisse tra le 6 e le 7.30 e cioè prima dell’arrivo dei dipendenti dell’altra ditta, e ha messo in rilievo la macroscopica imprudenza commessa dai due lavoratori, dall’infortunato per essere salito sopra il cassone ed essersi posizionato sotto la botola durante le fasi di scarico del materiale e dal collega per aver azionato il volano di apertura della botola mentre l’autista era posizionato sopra il camion, condotte queste due che avevano configurato un comportamento abnorme idoneo ad esonerare da responsabilità sia il datore di lavoro che il committente. Il datore di lavoro, dal canto suo, aveva lamentata nel suo ricorso una violazione di legge, in quanto non era il datore di lavoro della vittima dell’infortunio nonché un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta esclusione dell’abnormità del suo comportamento.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
In premessa la Corte di Cassazione, preso atto del decesso del datore di lavoro come documentato dal suo difensore, ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza emessa nei suoi confronti. Per quanto attiene alle doglianze avanzate dal committente la Corte di Cassazione ha sottolineato come lo stesso avesse data troppa rilevanza alla testimonianza del lavoratore presente al momento dell’accaduto in quanto, pur ammesso che i fatti non fossero andati come ricostruito dalla Corte territoriale, ma ipotizzando invece che, al contrario, il collega non si trovasse sul cassone del camion accanto all’infortunato ma avesse aperto la botola tramite il volano esterno, il giudizio di responsabilità nei suoi confronti sostanzialmente non muterebbe, visto che il punto dolente della vicenda, per come correttamente giudicato dai giudici di merito, era consistito nel fatto che i lavoratori dovessero svuotare a mano il silos, utilizzando un forcone dal basso per far scendere il materiale “impaccato” nel silos. In questa prospettiva quindi, era stato correttamente addebitato al committente non soltanto il mancato adeguamento del silos, sprovvisto di sistemi di svuotamento automatici, ma anche e soprattutto di aver omesso di coordinarsi con l’azienda appaltatrice e di non aver redatto il Duvri, tenuto conto del rischio interferenziale comunque sussistente in relazione alla struttura in questione.
“La nozione di interferenza tra impresa appaltante e impresa appaltatrice” ha tenuto a precisare la suprema Corte, “non può ridursi, ai fini dell’individuazione di responsabilità colpose, al riferimento alle sole circostanze che riguardino ‘contatti rischiosi’ tra il personale delle diverse imprese, ma deve necessariamente ricomprendere anche tutte quelle attività preventive poste in essere nella fase antecedente ai contatti rischiosi. Gli obblighi di sicurezza devono, infatti, essere adempiuti anche nella fase prodromica all’esecuzione dei lavori, allorché il dovere di coordinamento obbliga il responsabile ad esigere l’allestimento delle protezioni”. “In sostanza”, ha così proseguito la Sez. IV, “il personale della ditta appaltatrice, ancorché operi autonomamente nell’ambito del luogo di lavoro dell’appaltante, deve essere, a cura di quest’ultimo, posto in condizioni di conoscere preventivamente i rischi cui può andare incontro in quel luogo di lavoro”.
Gli obblighi di informazione di cui all’art. 26 del D. Lgs. n. 81 del 2008, ha ancora sostenuto la suprema Corte, devono essere estesi, infatti, alla dettagliata e compiuta analisi dei rischi specifici inerenti alle lavorazioni conferite in appalto ossia a tutte quelle situazioni e insidie che, dipendendo proprio dal luogo di lavoro e dalla natura dei materiali esistenti e delle mansioni da svolgere, devono essere poste a conoscenza dell’appaltatore, affinché questi possa regolarsi di conseguenza per cui, a norma dell’art. 26, comma 2, l’appaltatore e il subappaltatore sono tenuti a richiedere al committente il documento di valutazione dei rischi interferenziali e, qualora ricevano risposta negativa, a sopperire personalmente all’individuazione del rischio, collaborando con il committente.
Correttamente quindi la Corte territoriale, secondo la Sez. IV aveva ritenuto che il committente non avesse ottemperato all’obbligo di redigere il Duvri di cui all’art. 7 del D. Lgs. n. 626/94 in relazione al rischio connesso all’esecuzione dell’attività appaltata e in corso sul luogo di lavoro, avendo plausibilmente ritenuto sussistente un rischio da interferenza tra l’attività di scarico del silos e l’attività produttiva della ditta committente. Giustamente ancora, secondo la Cassazione, i giudici di merito avevano evidenziato che fra la ditta committente e l’appaltatore non vi era stato nessun reale coordinamento in relazione alle modalità più sicure da seguire per lo scarico del silos, essendo state le modalità di scarico rimesse alla diligenza degli operai della ditta appaltatrice, senza alcuna valutazione dei rischi e senza una precisa direttiva da osservare sulle cautele da tenere in caso di difficoltà nell’esecuzione dello scarico.
Plausibili considerazioni erano state tratte quindi nella sentenza di cui al ricorso sia in ordine alla sussistenza di profili colposi a carico del committente sia in ordine alla configurabilità del nesso causale fra le omissioni addebitate all’imputato e l’evento, avuto riguardo alla concreta verificazione del rischio che la normativa cautelare violata intendeva neutralizzare. Per questi motivi in conclusione la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del committente e ha condannato lo stesso al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel giudizio di legittimità.