Quando la manomissione di un dispositivo diventa un pericolo collettivo?
Non è la prima volta che la Corte di Cassazione si trova a pronunciarsi sulle responsabilità per una manomissione del cronotachigrafo, un componente installato sui mezzi per la misurazione di vari parametri.
Ad esempio lo ha fatto con riferimento alla:
- Sentenza n. 13937 del 22 marzo 2017;
- Sentenza n. 2200 del 19 gennaio 2018.
Sentenze che, come ricordato nell’articolo di Gerardo Porreca “ Manomissione di cronotachigrafo: quale normativa si applica?”, non sempre hanno un orientamento giurisprudenziale coerente.
A tornare ad affrontare il tema delle responsabilità in caso di manomissione di un cronotachigrafo è una recente sentenza della Corte di Cassazione – Sentenza n. 4890 del 31 gennaio 2019 – che interviene, in particolare, sulla “manomissione del dispositivo interagente con il cronotachigrafo del trattore stradale”.
Segnaliamo che il trattore stradale è un veicolo adibito al traino di semirimorchi con cui viene a formare, nel trasporto su strada, dei cosiddetti “autoarticolati”.
L’evento, la manomissione e il ricorso
Nella pronuncia della Corte di Cassazione si indica che con una sentenza predibattimentale del 22 marzo 2016 “il Tribunale di Livorno ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di P.GL. in relazione al reato a lui contestato di cui all’art. 437 cod. pen. per non essere il fatto previsto dalla legge come reato”.
E la contestazione riguardava “la manomissione del dispositivo interagente con il cronotachigrafo del trattore stradale in uso all’imputato, attuata con l’applicazione di ‘un magnete in prossimità del sensore di un movimento dell’albero di trasmissione’ e funzionale alla registrazione di un minore numero di ore di impiego rispetto a quelle effettive”.
E si indica che la questione di diritto – che è sottesa alla vicenda e che riguarda la “rilevanza concorrente/alternativa della condotta ascritta ai fini della legge penale, sì come contestata, ovvero ai sensi dell’art. 179, secondo comma, cod. strad.” – andava risolta “applicando esclusivamente la disciplina relativa all’illecito amministrativo, presentando lo stesso elementi specializzanti rispetto alla norma penale, rappresentati dal fatto che la violazione amministrativa era irrogabile solo a ‘chiunque circola’, e non a ‘chiunque’ in genere, e la condotta di manomissione e alterazione riguardava solo lo specifico apparecchio denominato cronotachigrafo, e non qualsiasi dispositivo destinato alla prevenzione dagli infortuni”.
Contro la sentenza propone ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze, che ne chiede l’annullamento, “denunciando la incorsa erronea interpretazione e applicazione degli artt. 437 cod. pen. e 179, secondo comma, cod. strad. e rappresentando che le due norme non sono in rapporto di specialità perché sanzionano diverse condotte, e segnatamente con il delitto è sanzionato l’atto della manomissione e con l’illecito stradale è sanzionata la circolazione con il dispositivo manomesso, cui consegue che l’imputato, che manomette il dispositivo e circola alla guida del trattore, risponde di due illeciti tra loro indipendenti”.
Ricordiamo ai nostri lettori che l’articolo 437 del Codice penale prevede che “chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni”.
Le premesse in diritto della Cassazione
A questo proposito la Cassazione sottolinea che la giurisprudenza di legittimità “ha da tempo affermato che è necessario, per la configurabilità dell’ipotesi delittuosa descritta dall’art. 437 cod. pen., che l’omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l’inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l’attitudine, almeno astratta, (…) a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività lavorativa, intesa come un numero di lavoratori (o comunque di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro) sufficiente, secondo l’apprezzamento del giudice di merito, a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo, senza di che mancherebbe in radice la possibilità di una offesa al bene giuridico tutelato (Sez. 1, n. 10951 del 10/10/1995, Yu Fang Jian, Rv. 202718)”.
Questo approccio interpretativo “è stato contrastato sulla base del rilievo che il pericolo presunto che la ridetta norma intende prevenire non deve necessariamente interessare la collettività dei cittadini o, comunque, un numero rilevante di persone, potendo esso riguardare anche gli operai di una piccola fabbrica, in quanto la norma prevede anche il pericolo di semplici infortuni individuali sul lavoro e tutela anche l’incolumità dei singoli lavoratori (tra le altre, Sez. 1, n. 11161 del 20/11/1996, Frusteri, Rv. 206428; Sez.l, n. 8054 del 11/03/1998, Luciani, Rv. 211778; Sez. 1, n. 12464 del 21/02/2007, L’Episcopo, Rv. 236431)”. Ma nel prendere atto di tale contrasto questa Corte ha riaffermato “che è presupposto per la configurabilità della ipotesi delittuosa descritta dall’art. 437 cod. pen. l’attitudine, almeno astratta, dei presidi antinfortunistici, la cui mancanza ovvero inefficienza dolosa sia in discussione, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività lavorativa, e la cui verifica costituisce oggetto di una indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità (Sez. 1, n. 18168 del 20/01/2016, Antonini, Rv. 266881)”.
A questo indirizzo, secondo la Corte – deve darsi “convinta continuità”, implicando il delitto di cui all’art. 437 cod. pen., “la sussistenza, sia pure in astratto, di un pericolo per la pubblica incolumità, nella misura in cui il comportamento addebitato al giudicabile risulti atto a mettere a repentaglio la vita o la integrità fisica di una comunità o collettività di persone (Sez. 4, n. 10812 del 04/05/1989, Micalizzi, Rv. 181922), e dovendo, per l’effetto, apprezzarsi la direzione della condotta di omissione, rimozione o danneggiamento doloso di impianti, apparecchi, segnali, destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, in rapporto a una collettività lavorativa, ‘intesa come un numero di lavoratori (o comunque di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro) sufficiente […] a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo’ (Sez. 4, n. 10812 del 04/05/1989, citata, Rv. 181921)”.
Le indicazioni della Cassazione
Fatte queste premesse si rileva che all’imputato “è contestato di ‘avere rimosso o comunque danneggiato apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, nella specie per aver applicato un magnete in prossimità del sensore di un movimento dell’albero di trasmissione del trattore stradale […] a lui in uso, per impedire la comunicazione tra il sensore stesso ed il cronotachigrafo, permettendo che questo segnasse il veicolo in modalità di fermata anziché in movimento, in modo che l’autista potesse guidare per più ore rispetto a quelle previste per legge’”.
Ed emerge che “già il tenore formale della contestazione, afferente alla condotta dell’imputato che, per la finalità indicata, ha applicato un magnete in un particolare posto del trattore, senza operare alcun riferimento a una collettività lavorativa, non consente di ricondurre la fattispecie concreta alla fattispecie astratta, che, secondo il condiviso, e qui riaffermato, orientamento, suppone che l’omissione, la rimozione o il danneggiamento dei presidi a tutela dei lavoratori siano idonee -per la collocazione della norma incriminatrice nell’ambito dei delitti contro l’incolumità pubblica- a creare pericolo a una collettività indeterminata di lavoratori, e non al singolo lavoratore”.
E, da questo punto di vista, “né il capo di imputazione e la motivazione della sentenza, che a esso si richiama, contengono alcun riferimento alla posizione dell’imputato come datore di lavoro che abbia manomesso, con le modalità enunciate, il cronotachigrafo di quel mezzo sì da creare, in termini di indeterminatezza, una situazione di pericolo potenziale per qualunque autista, lasciando piuttosto presumere che la condotta sia stata ascritta al conducente, che ha applicato il ridetto magnete al veicolo in suo uso”.
Ne consegue che il reato, come contestato, “non può ritenersi sussistente”. Ed il ricorso, “che non si è confrontato con la tipologia del reato previsto dall’art. 437 cod. pen., adducendo elementi volti a contestare il ravvisato rapporto di specialità sulla base della presupposta sussistenza del detto reato, qui esclusa, deve essere, pertanto, rigettato”.