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23 Apr

Le eventuali responsabilità del CSP e del CSE per infortunio sul lavoro

Nell’agosto di venticinque anni fa fu emanato il D. Lgs. n. 494/1996, riguardante il recepimento della direttiva 92/57/CEE meglio conosciuta come “direttiva cantieri”.

 

Ai tempi, i commenti di noi tecnici addetti ai lavori furono piuttosto concordi nel ritenere che il testo di recepimento, così come strutturato, prefigurava le funzioni dei coordinatori ed in particolare del CSE come un controllore aggiunto, un UPG onorario, ecc. e, pertanto, necessitava di modifiche significative per riavvicinare realmente la norma ai principi ed ai contenuti della direttiva cantieri.

 

Il riavvicinamento ai principi della direttiva non riuscì né con il successivo D. Lgs. n° 528/1999 e né con il D. Lgs. n. 81/2008, nonostante l’intero Titolo IV fosse dedicato ai cantieri temporanei o mobili.

 

In tutti questi anni chi scrive ha frequentato i tribunali dell’italico stivale quale Consulente Tecnico di Parte per i colleghi CSP e CSE coinvolti nei procedimenti penali per infortunio sul lavoro ed ha avuto modo di confrontarsi con i funzionari degli enti di vigilanza ed i consulenti tecnici dei PM riguardo quale debbano essere il ruolo e le funzioni del CSE in merito alla tutela della salute e della sicurezza in cantiere.

 

Nel seguito di questo intervento, si commenteranno alcune tra le principali tematiche che, purtroppo, continuano ad essere oggetto di discussione tra le Parti durante i dibattimenti in Tribunale presentando tre casi che hanno portato ad assoluzioni definitive del CSP e del CSE.

 

Il coinvolgimento del CSP

È piuttosto raro vedere un CSP chiamato a rispondere in tribunale per un reato d’evento ma al sottoscritto è capitato di dover sostenere una consulenza tecnica per un collega chiamato a rispondere in queste funzioni.

 

In questo caso, la critica che veniva fatta con molta creatività dal PM e dal suo CT, era quella relativa al mancato coordinamento delle disposizioni di cui all’art. 90 comma 1 come richiesto dall’art. 91 comma 1-bis del D. Lgs. n° 81/2008.

 

Secondo la Procura, la mancata azione di ricerca prevenzionale in fase progettuale, con l’integrazione delle scelte conseguenti nella progettazione dell’opera, aveva inciso con nesso di causalità efficiente con l’evento con il PSC redatto a posteriori alla progettazione dell’opera.

 

In questo caso si era dovuto dimostrare in dibattimento, in primis, che non era certo un obbligo di un professionista, in possesso dei requisiti per svolgere le funzioni di coordinatore, andare dal committente e proporsi per la nomina a Coordinatore per la Progettazione (CSP). Era stato sufficiente far notare al Giudice quanto previsto nell’allegato XV del D. Lgs. n° 81/2008 a proposito di “scelte progettuali ed organizzative”, da dove emerge palesemente che il soggetto deputato ad informare, quanto meno per etica professionale, il committente sui suoi obblighi è, innanzitutto, il professionista a cui questi si rivolge per le pratiche autorizzative e la progettazione o lo stesso imprenditore (nei casi in cui il committente gli si è direttamente rivolto).

 

Nel caso di specie, le ipotetiche scelte progettuali ed organizzative di cui si contestava la mancanza e che, secondo il CT del PM, avevano concorso a causare l’evento, oggetto della censura nei confronti del CSP, non potevano essere da questi attuate visto che la nomina era arrivata già a progetto terminato e, pertanto, quanto contestato non era una condotta penalmente esigibile.

In altre parole, il CSP aveva fatto quel che poteva.

La logica conseguenza era stata quella dell’assoluzione del CSP perché il fatto non sussiste.

Da casi come questo si traggono anche degli spunti per il miglioramento della situazione.

Infatti, i PSC diventano documenti “appiccicati” solo perché il committente, non ha proceduto alla nomina del CSP o perché non lo sapeva o perché non voleva procedere in tal senso per una sua precisa scelta.

Situazioni come questa del caso descritto, specialmente nei piccoli cantieri, se ne verificano tante.

 

Il legislatore, per migliorare la situazione, potrebbe introdurre l’obbligo per il committente, al momento della richiesta del titolo autorizzativo all’amministrazione concedente, anche la comunicazione dell’avvenuto affidamento dell’incarico di CSP, visto che tale incarico deve avvenire contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione (art. 90 comma 3 del D. Lgs. n° 81/2008).

 

Infatti, così come concepita la norma, rende sempre possibile permettere al committente di attendere fino all’ultimo momento per l’affidamento dell’incarico di coordinatore, visto che l’appalto per l’esecuzione dell’opera, viene assegnato, quasi sempre ad un’impresa (esclusi gli appalti scorporati) che, generalmente, poi subappalterà parte dei lavori ad altre imprese (e lavoratori autonomi).

 

Quindi, se si volesse rimuovere la causa prima dei “PSC appiccicati a posteriori”, basterebbe prevedere quanto sopra perché, in concreto, quanti sono oggi gli appalti per la cui esecuzione, in cantiere è presente una sola impresa? Praticamente nessuno!

 

Il CSE ed i rischi interferenziali e i rischi specifici o propri dell’impresa

Tra i procedimenti penali affrontati dal sottoscritto, sempre come CTP del CSE, ci sono stati casi in cui il professionista era stato coinvolto in quanto la Procura, l’ente di vigilanza e il CT del PM ritenevano che questi << dovesse occuparsi non solo dei rischi interferenziali e/o aggiuntivi ma anche del controllo dei rischi specifici o propri delle imprese esecutrici visto quanto previsto dal legislatore all’art. 92 comma 1 lett. e) del D. Lgs. n° 81/2008>>.

 

Un’ipotesi accusatoria di questo tipo denotava il perdurare dell’incapacità di comprendere la differenza esistente tra la gestione dei “rischi interferenziali e aggiuntivi” ed i “rischi specifici o propri”.

 

Nel dibattimento era stata chiarita la sostanziale differenza esistente tra rischi interferenziali, rischi aggiuntivi e rischi specifici o propri, in modo da definire gli attori che erano obbligati alla loro individuazione e valutazione ed alla successiva adozione delle misure di prevenzione e protezione atte ad eliminarli o ridurli al minimo.

 

Al Giudice era stato spiegato che i rischi interferenziali derivavano da una situazione di presenza simultanea o successiva di più imprese o di lavoratori autonomi nella medesima area di lavoro; essi erano, pertanto, generati non da singole attività lavorative ma dalla suddetta situazione di promiscuità e/o di polifunzionalità e dalle ricadute esterne delle attività stesse.

 

Questi rischi potevano anche derivare dalla specifica interazione tra le diverse attività presenti nel cantiere come, ad esempio, durante l’utilizzazione d’impianti, d’aree e/o d’attrezzature di lavoro comuni.

 

I rischi “aggiuntivi”, invece, erano quelli derivanti dalle specifiche condizioni dell’area di cantiere, come le condizioni idrogeologiche o dalle particolari condizioni della zona dei lavori e dell’ambiente circostante.

 

I rischi specifici o propri, invece, derivavano dalla natura dell’attività svolte dalle singole imprese esecutrici dove la posizione di garanzia continuava ad essere quella del datore di lavoro che, tramite la sua catena gerarchica, era chiamato a soddisfare gli obblighi posti a suo carico dal legislatore.

 

Ogni datore di lavoro ha la sua autonomia organizzativa ma più datori di lavoro, nello stesso ambiente e ciascuno con la sua autonomia, possono creare delle situazioni di rischio che non sono governabili da ciascuno di loro ma che necessitano di una regia.

È compito del CSE esercitare in concreto questa regia.

Quindi, nell’esposizione davanti al Giudice, era stato spiegato che la violazione alla norma prevenzionale (distacco del lavoratore dalla linea vita) che aveva poi portato all’evento si era sì concretizzata in seguito alla mancata adozione di una misura prevenzionale prevista da un obbligo “proprio” (cioè posto a carico di ben determinati soggetti che, nel caso in esame, sono il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti), ma ciò era avvenuto in tempi rapidissimi e tali da non permettere al CSE una verifica sul rispetto delle prescrizioni del PSC e del POS.

 

Inoltre, era stato spiegato che anche se lo stesso CSE fosse stato sempre presente in cantiere, questi non potrebbe mai conseguire il risultato di assicurare la completa adozione di tutte le misure prevenzionali in quanto, fisicamente, non avrebbe mai potuto vigilare su tutto il cantiere per impedire quel comportamento pericoloso che aveva portato al grave evento avvenuto.

 

La sorveglianza continua non poteva che essere esercitata dalle figure dell’impresa e, in particolare, dai preposti ma non certo dal CSE, come del resto indicato, a partire da maggio 2010, dalla Cassazione Penale.

Anche in questo caso la logica conseguenza è stata quella dell’assoluzione del CSE perché il fatto non sussiste.

 

Il CSE e la verifica d’idoneità del POS

Un altro procedimento penale a carico del CSE ed affrontato dal chi scrive come suo CT, era nato da un’ipotesi accusatoria della Procura in seguito ad un infortunio sul lavoro e si basava sull’assunto che il CSE <<non aveva verificato l’idoneità del POS dell’impresa in assenza dei seguenti elementi: a) le misure preventive e protettive da adottare in relazione ai rischi connessi alle lavorazioni svolte nella realizzazione della galleria; b)le indicazioni su quale sia la distanza di sicurezza da mantenere dal fronte di scavo >>.

 

In particolare, veniva poi contestato che nel POS, il rischio di distacco di gravi dal fronte di scavo era stato valutato dall’impresa come “rischio medio” anziché “rischio alto”.

Tutto ciò aveva concorso a causare l’infortunio (preposto colpito alla schiena da un masso staccatosi dal fronte della galleria) durante la fase di disgaggio del fronte di scavo.

Nella consulenza tecnica di parte era stata presentata al Giudice una visione diversa di cosa si dovesse intendere per verifica d’idoneità del POS da parte del CSE.

 

Innanzi tutto, si era obiettato che quanto affermato dal PM sulla base della relazione dell’ente di vigilanza riguardo <<il potere – dovere, per il CSE, di intervenire nella fase di verifica dell’idoneità del POS apportando, se del caso, modifiche anche di sostanza come nel caso dell’entità del rischio che risultava sottostimata nel POS>>, era un’ipotesi accusatoria quantomeno pittoresca.

 

Nel caso di specie, nel PSC era stato previsto un monitoraggio in continuo dello scavo per verificare gli stati tensionali e le deformazioni delle strutture sotterranee in costruzione nonché, prima dell’inizio delle attività di scavo sul fronte, la valutazione, da parte del preposto al fronte, delle condizioni di stabilità del terreno e, in caso di sospetta instabilità, l’obbligo di avvisare il responsabile delle operazioni dell’impresa al fine di adottare tutte le precauzioni per assicurare le condizioni minime di sicurezza dell’area.

 

Al Giudice era stato fatto notare che nel PSC erano state definite le misure per ridurre al minimo i rischi derivanti dall’instabilità delle pareti e della volta nei lavori in galleria ma la valutazione della loro entità, a seguito della concreta applicazione non solo di tali misure ma anche delle misure integrative previste nel POS, non poteva che essere del datore di lavoro dell’impresa esecutrice.

 

Infatti, le misure previste nel PSC erano, poi, state integrate dall’impresa esecutrice nel POS prima individuando i rischi per la specifica mansione di “preposto al fronte” e poi le conseguenti misure di prevenzione e protezione per “Caduta di materiali o attrezzi dall’alto, parti di spritz beton o cedimenti localizzati del fronte scavo”.

 

La valutazione dell’entità del rischio, a seguito dell’adozione delle misure del PSC e di quelle integrative del POS, si era ridotta, secondo quanto previsto dal datore di lavoro dell’impresa, da “Alta” a “Media”.

 

Pertanto, se il datore di lavoro dell’impresa aveva stabilito, dopo l’adozione delle misure di prevenzione e protezione previste nel PSC e nel POS, una determinata entità del rischio seguendo precisi criteri, il CSE non poteva giudicare non idoneo un POS solo perché, l’entità del rischio era stata inizialmente quantificata come “Alta” nel PSC prima dell’adozione delle misure di contenimento e riduzione del rischio.

 

Inoltre, era stato evidenziato che lo scavo della galleria veniva eseguito previo consolidamento dell’ammasso da scavare, dando così concreta attuazione alle misure generali di tutela indicate all’art. 15 ed all’art. 90, comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008.

 

In altre parole, se nel PSC l’entità del “rischio d’instabilità delle pareti e della volta”, come nel caso in esame, era stato inizialmente valutato come “Alto”, nulla vietava che l’impresa, applicando le misure generali di tutela e adottando sia le proprie misure di prevenzione e protezione previste nel PSC che quelle integrative decise nell’ambito della propria autonomia, potesse ridurre l’entità del rischio da “Alta” a “Media”.

 

Il CSE, pertanto, non poteva sindacare le decisioni prese dal datore di lavoro dell’impresa riguardo la tipologia delle misure di prevenzione e protezione previste nel POS ed integrative rispetto quelle previste nel PSC ma solo verificarne la concreta efficacia nella loro applicazione evitando, in caso contrario, di violare l’autonomia organizzativa dell’appaltatore.

 

Quindi, ciò che poteva fare il CSE era verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, durante la realizzazione dell’opera, l’applicazione di quanto previsto nel PSC, nelle procedure di lavoro e nel POS e, in caso contrario, attuare quanto previsto dall’art. 92, comma 1, lettere e) ed f) del D. Lgs. n° 81/2008.

 

Riguardo l’altra contestazione e cioè la verifica dell’idoneità del POS in assenza dell’indicazione della distanza di sicurezza da mantenere al fronte di scavo, era stato fatto notare al Giudice che non era possibile fissare alcuna ”distanza di sicurezza” a priori che potesse essere ritenuta sempre valida durante tutte le fasi di scavo perché, pur conoscendo le caratteristiche geomeccaniche del terreno oggetto dello scavo e pur avendo attuato degli interventi di pre-consolidamento, la distanza di sicurezza a cui mantenersi poteva dover essere modificata in funzione dell’eterogeneità dell’ammasso di terreno che si attraversava man mano che si procedeva, metro per metro, con lo scavo.

 

Poi era stato ribadito che la norma speciale che regolava la prevenzione infortuni lavori in sotterraneo e, quindi, anche per i lavori di scavo delle gallerie, era il D.P.R. n° 320/1956 che prevedeva espressamente all’art. 15 che << lo stato di sicurezza dello scavo deve essere tuttavia controllato, allo scopo di provvedere tempestivamente all’armatura o al puntellamento dei tratti o punti risultanti non sicuri>>.

 

Infine era stata presentata al Giudice quale fosse la mansione del preposto al fronte e cioè quella di un tecnico dedicato alle lavorazioni al fronte in possesso di esperienza documentata nella valutazione delle condizioni di stabilità del fronte ed in grado di dirigere, sulla base di una valutazione oggettiva delle condizioni di sicurezza, le operazioni a ridosso del fronte e, nel corso delle attività, di prevedere tempestivamente condizioni di crollo o rilascio da porzioni, comunque limitate, delle superfici fresche di scavo.

 

Per assolvere quanto indicato e, in particolare, quanto sottolineato, il preposto infortunatosi, doveva avvicinarsi al fronte di scavo per verificarne le condizioni.

 

Di conseguenza, la distanza da mantenere non poteva che essere decisa da lui stesso (nel caso di specie, soggetto di grande e documentata esperienza), sulla base della propria esperienza in funzione delle caratteristiche dell’ammasso di terreno in fase di scavo.

 

Quindi, il fatto che nel POS non fosse stata prevista una distanza di sicurezza da mantenere dal fronte di scavo e che fosse stata lasciata alla discrezionalità del preposto la scelta della distanza da mantenere durante le fasi di scavo  della galleria, non era certo la dimostrazione di errori di valutazione dei contenuti del POS da parte del CSE ma l’applicazione di un sistema di controllo, verifica e responsabilizzazione dei lavori al fronte di scavo già previsto da norme in vigore dagli anni ’50 (D.P.R. n° 320/1956) nonché sperimentato con successo in opere infrastrutturali di grande complessità.

 

Anche in questo caso, il Giudice, preso atto di quanto sostenuto dalla difesa, ha  assolto il CSE perché il fatto non sussiste.