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14 Ott

Gli infortuni dei consulenti durante i sopralluoghi in azienda

In Cassazione Penale, Sez.IV, 5 ottobre 2017 n. 45808, la Corte ha confermato la condanna di C.V., C.D. e B.M. per la morte della R., la quale “il 29 giugno 2010 si era recata presso un edificio ad uso commerciale sito in (…), composto da tre piani (interrato, terra e primo), che doveva essere adibito a supermercato, per compiervi un sopralluogo per conto dello studio di progettazione S. s.r.l., della quale ella era dipendente con mansioni di disegnatrice.”

 

In particolare, la R. era stata “incaricata di effettuare dei rilievi metrici al piano terra, per permettere di valutare lo spessore del muro e l’ingombro del vano scala”. Così ella “si introdusse all’interno di questo attraverso il varco nella pannellatura in cartongesso, che era stata praticata il giorno precedente dal C. – titolare dell’omonima ditta individuale – per fare una valutazione del locale.”

 

Dunque “la donna, una volta entrata nel vano, precipitò al piano interrato attraverso l’apertura per il transito dell’ascensore (o il vano a destra dell’ingresso) lasciati vuoti, aperti e non protetti.”

 

Sotto il profilo delle responsabilità, “ai datori di lavoro della R., il C. e il B., è stato ascritto di aver omesso di valutare lo specifico rischio insito nello svolgimento di sopralluoghi all’esterno e all’interno dei cantieri, e conseguentemente di non aver adottato le misure atte a prevenire quei rischi e di non aver formato la lavoratrice in relazione ad essi.” Invece “al C. [è stato contestato, n.d.r.] di non aver ripristinato la chiusura del vano scala, dopo aver praticato in esso un varco di accesso.”

 

La Cassazione ha valutato i ricorsi dei datori di lavoro della R. (C. e B.).

 

Secondo la Corte, “gli imputati avrebbero dovuto provvedere, il C., perché datore di lavoro della R., ad elaborare la preliminare valutazione dei rischi connessi all’esecuzione di attività lavorativa presso il sito costituito dall’edificio oggetto dei lavori da progettare e a formare la lavoratrice in merito agli stessi. Obbligo, quest’ultimo, gravante anche sul B., in qualità di dirigente nell’ambito della S. s.r.l.”.

 

Dopo aver richiamato la “tipologia di rischio esistente, ovvero la caduta dall’alto per la presenza di aperture nel vuoto”, la Cassazione precisa che “a fronte di un simile rischio – si tace di altri, perché non rilevanti ai fini del discorso che si sta compiendo – l’attività di formazione non era certo esclusa dalla semplicità delle misure da adottare.”

 

Infatti – ricorda la Corte – “con la formazione si impartiscono al lavoratore direttive, sia pure in una forma che potrebbe dirsi di “soft law”, le quali indicano allo stesso quale comportamento si pretende da lui; gli si indica quel che ci si attende e cosa non deve fare. In assenza di formazione si lascia il lavoratore nella necessità di decidere ciò che egli deve come comportamento cautelare. Ed è certo possibile che questi erri, anche in modo macroscopico.”

 

In ogni caso, la Cassazione rileva che, nella fattispecie, “dalla esposizione della Corte di Appello non è possibile ricavare quali siano stati i contenuti e la tempistica dell’affidamento alla società del C. e del B. dell’incarico di progettazione, in relazione al venire in essere delle condizioni dell’edificio”.

 

A parere della Corte “va considerato, infatti, che ove l’insorgere del rischio (tipologico) di caduta dall’alto (per l’esistenza di aperture sul vuoto) fosse avvenuto in tempi successivi ad una valutazione dei rischi comunque eseguita – ma giustificatamente manchevole della considerazione dello specifico rischio – e di esso gli imputati fossero rimasti incolpevolmente all’oscuro, non potrebbe essere loro ascritto di non aver considerato un rischio che non avevano possibilità di conoscere.”

 

In conclusione, “il provvedimento impugnato va quindi annullato con rinvio alla Corte di Appello di Torino, perché operi un integrativo accertamento, concernente i termini ed i tempi dell’affidamento alla S. s.r.l. dei lavori di progettazione per l’edificio nel quale si verificò il sinistro e le contestuali condizioni strutturali del medesimo, con particolare riferimento alla esistenza di sorgenti del pericolo di caduta dall’alto; e quindi valuti, alla luce del più definito quadro fattuale, la condotta degli odierni ricorrenti, secondo le assunzioni in diritto ribadite in questa sede.”

Qualche anno prima, con Cassazione Penale, Sez.IV, 8 novembre 2012 n. 43453, la Corte si è pronunciata sulle responsabilità legate alla morte di un perito tecnico libero professionista che si trovava sul piazzale di un’area portuale per verificare della merce.

 

I ricorrenti sono un datore di lavoro ed un lavoratore con mansioni di autista.

 

Nello specifico, quest’ultimo “si trovava alla guida di una trattrice, con agganciato un semirimorchio”, la quale trattrice, “definita in gergo tecnico “ralla”, aveva la caratteristica di poter far ruotare di 180 gradi il posto di guida, con il risultato di poter effettuare operazioni di retromarcia con il conducente che aveva quindi il corpo ed il viso rivolti all’indietro, ovvero nella direzione in cui stava marciando, dunque in condizioni non dissimili da una normale guida in avanti, se non per il fatto che il guidatore aveva davanti a sé l’ingombro del semirimorchio.”

 

L’autista dunque, che stava effettuando una manovra di retromarciainvestiva così il perito, che “stava attraversando trasversalmente la banchina ed aveva in mano un libriccino, che consultava con la testa abbassata.”

 

Quest’ultimo “era un libero professionista, che effettuava perizie assicurative sulle merci in transito nel porto. Si trattava di una persona usa a transitare nel porto, anche se quel giorno specifico non risultava che gli fosse stata rilasciata alcuna autorizzazione ad accedere alle banchine.”

 

Secondo la Corte, “la condotta spiccatamente imprudente della vittima, laddove non si estrinsechi in un contegno eccezionale ed abnorme, non implica né l’interruzione del nesso causale né l’imprevedibilità della condotta stessa (al pari del caso dell’automobilista che investa un pedone in retromarcia).”

 

Concludiamo questa breve (e come sempre non esaustiva) rassegna con la sintesi di una peculiare pronuncia (Cassazione Penale, Sez.VI, 14 gennaio 2014 n.1260) avente ad oggetto – più in generale – la tutela del libero professionista in materia antinfortunistica.

 

In questo caso M.S. era imputato nella sua qualità di medico di servizio presso il pronto soccorso di un ospedale civile per il reato di cui all’art.365 c.p. in quanto nel 2006, “avendo prestato la propria assistenza in un caso che presentava i caratteri del delitto perseguibile d’ufficio, trattandosi di lesioni da infortunio sul lavoro con prognosi superiore a 40 giorni, ometteva di riferirne all’autorità competente (polizia giudiziaria e Spresal)”.

 

La Corte d’Appello, che aveva confermato la condanna di M.S., si era confrontata con la tesi difensiva che era incentrata sulla presunta “insussistenza del reato quantomeno in relazione all’elemento psicologico, atteso che l’infortunato aveva costantemente dichiarato, durante i diversi momenti dell’intervento sanitario complessivo, di essere libero professionista”.

 

Non accogliendo tale impostazione, “la Corte distrettuale osservava che la normativa antinfortunistica trovava applicazione pure nei confronti di lavoratori autonomi e liberi professionisti (richiamando in proposito la L. n.123 del 2007, art.1, comma 2, lett.c) e che nel caso concreto il referto non trasmesso attestava quale motivo del “passaggio” al pronto soccorso “infortunio sul lavoro” con prognosi di “60 giorni s.c.”.”

 

Dunque “il Giudice d’appello richiamava Cass.18052/2001 (in materia di lavoro subordinato, osserverà il ricorrente) e concludeva che sussisteva la colpevolezza in ragione del consapevole accertamento di un infortunio in ambito di lavoro e della durata delle lesioni e quindi dell’obbligo di referto (attesa anche la natura di reato di pericolo della fattispecie incriminatrice), sicché l’omissione doveva attribuirsi quantomeno a dolo eventuale”.

 

Nel ricorrere in Cassazione, il medico imputato aveva dedotto “l’incomprensione da parte della Corte d’appello della questione di diritto che doveva essere risolta per affermare nella specie sussistente l’obbligo di referto: incontestata la sussistenza di obblighi prevenzionali anche per lavoratori autonomi e professionisti (ancorché la L. n.123 del 2007 richiamata nella sentenza impugnata sia successiva ai fatti), in questo caso il punto era non la responsabilità del libero professionista nei confronti di se stesso o di altri, bensì l’eventuale sussistenza della responsabilità di un terzo per il suo infortunio.”

 

La Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata e rinviato per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello competente. Vediamo in estrema sintesi perché.

 

La Cassazione chiarisce anzitutto che “mentre per ogni lavoratore subordinato vi è un datore di lavoro destinatario di obblighi dedicati specifici, altrettanto e notoriamente non può dirsi per il libero professionista che sia effettivamente tale (ancorché possa sussistere in astratto la responsabilità di un datore di lavoro nei confronti di terzi, e quindi anche del libero professionista, quando l’eventuale infortunio del terzo avvenga in ambiente di lavoro del quale un determinato datore sia responsabile e a causa di inosservanza di norme prevenzionali: Sez.4, sent.23147/2012).”

 

Inoltre “la denuncia di infortunio sul lavoro da parte del libero professionista potrebbe esser fatta anche a meri fine assicurativi personali in contesti nei quali nessuna responsabilità di altri sia ipotizzabile, procedibile o meno che sia d’ufficio.”

 

Concludendo in merito al caso di specie, secondo la Cassazione “allo stato la motivazione della Corte d’appello può essere qualificata come apparente, perché la risposta alla censura dell’impugnazione sull’elemento psicologico viene data rendendo sostanzialmente il problema della peculiarità dello status di libero professionista, e non di lavoratore subordinato, allo stato non contraddetta, dando rilievo ad un’estensione di obblighi che nella specie non rileva […], e poi mutuando principi della giurisprudenza relativa alla relazione peculiare datore di lavoro/lavoratore subordinato senza spiegare la possibile pertinenza al caso, data per scontata.”

 

Dunque, “considerando allora che consolidato è l’insegnamento di questa Corte sulla rigorosa prova del dolo di omissione del referto (Sez.6, sent 7034/1998, 3448/1998 e 3447/1998), si impone l’annullamento con rinvio per nuovo giudizio.”