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20 Dic

La tutela sia della salute che della privacy di un lavoratore fragile

E’ interessante questa sentenza della Corte di Cassazione emessa nel luglio scorso perché riguarda la tutela della salute di un lavoratore fragile e perché suggerisce una modalità per attuare una sorveglianza sul suo operato da parte degli altri lavoratori della stessa azienda. Il caso riguarda un lavoratore affetto da epilessie, destinatario di prescrizioni da parte del medico competente inerenti al divieto di lavoro notturno e al divieto di lavori in ambienti confinati o in solitario, il quale, allontanatosi dalla sua postazione di lavoro si è recato all’interno di un’area dismessa dello stabilimento già adibita a zona franca per fumare, in pessime condizioni di igiene e microclimatiche, nella quale è stato ritrovato più tardi dai suoi colleghi in coma e che è poi deceduto malgrado il soccorso operato dagli stessi. Il datore di lavoro, ritenuto responsabile del suo decesso per negligenza, imprudenza e imperizia e in violazione di norme di prevenzione e sicurezza sul lavoro con particolare riferimento all’art. 64 del D. Lgs. n. 81/2008, è stato comunque assolto dal Tribunale con sentenza poi confermata dalla Corte di Appello perché il fatto non sussiste.

 

La parte civile ha ricorso alla Corte di Cassazione per l’annullamento della sentenza sostenendo che il lavoratore non era stato sottoposto ad alcuna sorveglianza da parte del datore di lavoro e che l’area nella quale questi operava era da ritenersi per l’assenza di controllo ‘ambiente confinato’ e inoltre che la sua prestazione era ‘in solitario’. La suprema Corte ha sostenuto invece, nel rigettare il ricorso, che la disposizione impartita relativa all’ambiente ’non confinato’ e alla modalità non ‘in solitario’ era stata rivolta, non potendo rendere nota agli altri la patologia sofferta senza il suo consenso, proprio per porre lo stesso in una condizione di ‘visibilità’ da parte di terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente male e perde i sensi, come può accadere nel caso delle crisi epilettiche, è immediato l’allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze i quali possono così intervenire a soccorrerlo.

 

Il fatto e l’iter giudiziario

La Corte di Appello ha confermata la sentenza del Tribunale con cui il direttore e il preposto di una società e il preposto di uno stabilimento gestito dalla stessa sono stati assolti con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ dal reato di cui all’art. 589 comma secondo cod. pen., loro ascritto dall’imputazione per avere cagionato, nelle loro qualità, la morte di un lavoratore perché con imprudenza, negligenza ed imperizia, ed in violazione di norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro ed in particolare dell’art. 64, comma 1, lett. c) ed e) del D. Lgs. n. 81/2008, consentivano e tolleravano l’utilizzazione da parte dei dipendenti di un’area di produzione dismessa, quale zona franca per fumare, in pessime condizioni igieniche e microclimatiche, caratterizzata da alte temperature, senza informare i diretti superiori, non impedendo così che un lavoratore dipendente, affetto da epilessia e garantito da prescrizioni medico aziendali che non consentivano, fra l’altro, il lavoro in ambiente confinato, vi accedesse, ed ivi colto da crisi, probabilmente favorita dall’alta temperatura, fosse ritrovato solo dopo due ore, in stato di coma, decedendo dopo nove giorni per progressiva ed ingravescente disfunzione multiorgano e coagulopatia intravascolare disseminata, secondaria a coma post-epilettico prolungato.

 

Secondo la ricostruzione fatta dal Tribunale il lavoratore destinatario, pur ritenuto abile al lavoro ed alle mansioni, di prescrizioni inerenti al divieto di lavoro notturno, al divieto di lavoro in ambienti confinati o in solitario, al divieto di lavoro in quota o su carrelli, un giorno si è allontanato dalla sua postazione di lavoro. Un suo collega, non vedendolo tornare, aveva cominciato a cercarlo verificando anche che non si fosse introdotto in un box di una vecchia linea di produzione ma, avendo trovata la porta chiusa con un lucchetto ed avendo visto che all’interno era tutto buio, era andato a cercarlo altrove. Altri dipendenti, allertati, avevano cominciato le ricerche che si concludevano dopo un’ora quando il lavoratore era stato rinvenuto, in stato di coma, all’interno di un’area dismessa e precisamente in un locale al quale si accedeva da una porta del box ove il collega lo aveva cercato un’ora prima, chiusa con un lucchetto, che, tuttavia, presentava un pannello inferiore manomesso. Il coma determinato dalla crisi epilettica aveva indotto una disfunzione multiorgano che lo aveva condotto alla morte.

 

Il Tribunale aveva assolto gli imputati per insussistenza del fatto, osservando che il lavoratore deceduto era normalmente adibito a due diverse postazioni e allo stesso veniva assicurata una certa libertà di movimento, proprio in ragione della sua malattia. Dalla lettura del fascicolo delle indagini preliminari era risultato che l’area nella quale il lavoratore era stato ritrovato fosse un’area completamente dismessa, ove non era presente alcuna fonte di calore; che i testimoni avevano riferito che il lavoratore presentava una temperatura corporea elevata, ma nulla avevano riferito sulla temperatura dell’ambiente in cui fu rinvenuto; che non è stato possibile accertare se un intervento più tempestivo avrebbe, con ragionevole certezza, evitato l’evento morte o ridotto la significatività dell’evento lesivo; che non è stato possibile ricostruire quando egli abbia avuto l’attacco epilettico, quando sia entrato in coma e come abbia influito il fattore tempo sullo stato comatoso accertato e che nessuna indagine è stata svolta sulla sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva contestata e l’evento morte.

 

Il Tribunale, inoltre, aveva considerato che il lavoratore, manomettendo il pannello, in modo che ciò non fosse visibile, aveva posto in essere un comportamento che, di per sé, aveva costituito un ostacolo alle ricerche; che il datore di lavoro aveva ottemperato alle prescrizioni impartite dal medico in relazione alla prestazione lavorativa, consistenti nel non adibire il lavoratore al lavoro notturno, al lavoro in quota o su carrelli e al lavoro in ambiente confinato o in solitario. Era emerso in verità, che il lavoratore operava in ambiente aperto, in postazioni che potevano essere monitorate dai colleghi di lavoro, da una delle quali si era allontanato senza motivo noto o plausibile, per recarsi in un ambiente totalmente chiuso, manomettendo un pannello per entrarvi. Egli, pertanto, aveva messo in atto un comportamento abnorme ed imprevedibile da parte del datore di lavoro, al quale non era stato richiesto di tenere il lavoratore sotto controllo continuo e costante, ma solo di non contravvenire alle prescrizioni impartite, cui aveva regolarmente adempiuto. Il datore di lavoro, dunque, non aveva posto in essere, secondo il Tribunale, alcuna condotta omissiva e comunque mancava il nesso causale con la morte del lavoratore.

 

La Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, aveva ribadito le modalità di accadimento dell’evento come accertate dal primo giudice. Indi si è soffermata sull’assenza della condotta colposa ascritta, rilevando che, pur non potendo escludersi che altri, oltre al lavoratore deceduto, avessero frequentato l’area in questione, nondimeno, nessuna prova era stata raggiunta sulla conoscenza di detto uso improprio da parte della dirigenza, né tantomeno che il fatto fosse tollerato. Aveva esclusa quindi la violazione dell’art. 19 lett. f) del D. Lgs. n. 81/2008, non essendo stato in alcun modo dimostrato che gli imputati fossero a conoscenza dell’utilizzo di quel locale, chiuso con una porta recante un lucchetto.

 

Quanto poi alla contestazione dell’omessa vigilanza sul lavoratore affetto da epilessia, la Corte territoriale aveva sottolineato che l’ambiente lavorativo nel quale questi operava non poteva dirsi ambiente confinato. Né era configurabile alcuna negligenza nel sistema organizzativo aziendale o alcuna omissione di vigilanza sul lavoratore sicché non sussistevano le condotte omissive contestate, il che di per sé è stato sufficiente ad escludere il reato. La Corte territoriale, peraltro, aveva anche affrontato il profilo del nesso causale, concludendo, come il primo giudice, sulla sussistenza del comportamento abnorme del lavoratore, consistito nell’introdursi, nel corso dell’orario di lavoro, in un’area chiusa, il cui accesso era precluso da una porta bloccata con un lucchetto, provvedendo a rimuovere un pannello, senza alcuna ragione plausibile.

 

Il ricorso per cassazione e le motivazioni.

Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso per cassazione la parte civile, a mezzo del suo difensore, formulando un unico articolato motivo. La stessa, confermando le decisioni assunte dal Tribunale, in modo avulso dalla realtà processuale, avrebbe ritenuto insussistente l’omessa vigilanza sul lavoratore, considerando non previsto il monitoraggio costante del medesimo e ciò senza tenere conto delle importanti limitazioni previste alla sua prestazione, né del fatto che il medesimo non poteva lavorare in solitario e che al suo fianco era stato posto, da pochi giorni, un operaio non a conoscenza delle sue condizioni di salute, il che deve ritenersi equivalente al lavoro ‘in solitario’.

 

Ha osservato, inoltre, la parte ricorrente che se era stato ritenuto che non vi fosse onere di vigilanza da parte dei colleghi, ciò significava che il lavoratore non veniva sottoposto a sorveglianza alcuna, tanto è vero che solo casualmente il collega si era avveduto della sua assenza. Dunque, l’area nella quale operava il lavoratore, per l’assenza di controlli era da ritenersi ‘ambiente confinato’ e la prestazione del medesimo ‘lavoro in solitario’, non essendo prevista neppure la presenza di un team leader che si occupasse di gestire le pause ed effettuare i controlli sulle singole postazioni di lavoro. Ciò, nondimeno, aveva dimostrata la negligenza del sistema organizzativo aziendale, liquidata dai giudici di merito con l’assenza della previsione di un obbligo di controllo continuativo del dipendente. La parte ricorrente, inoltre, ha sottolineato che la stessa adibizione del lavoratore a due postazioni diverse, di cui una non visibile stava a dimostrare la negligenza del datore di lavoro e dei suoi preposti nell’organizzazione dell’impresa e nella vigilanza sul lavoratore, benché affetto da così grave patologia, che ha reso possibile che la sua assenza perdurasse per un tempo così lungo, senza alcuna allerta. Ha concluso così chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

Il ricorso è stato rigettato dalla Corte di Cassazione, In ordine ai profili di ricostruzione del fatto, ha sostenuto la stessa, occorre soffermarsi su due aspetti che vengono sollevati dalla censura. Il primo è inerente la configurabilità della condotta omissiva descritta nell’imputazione, riguardante l’omessa vigilanza sul lavoratore, pur essendo la sua attività soggetta ad una serie di prescrizioni a tutela del suo stato di salute. La condotta sarebbe consistita nell’avere collocato il lavoratore in un’area che non consentiva un controllo costante sul medesimo, il quale, infatti, aveva potuto allontanarsi indisturbato, senza che la sua assenza, pur prolungata, destasse preoccupazione per un lungo periodo di tempo.

 

La questione, secondo la suprema Corte, andava esaminata sotto due profili. L’uno riguardante gli obblighi del datore di lavoro, a fronte della conoscenza di un problema grave di salute del lavoratore e del contenuto delle prescrizioni del medico del lavoro, subordinanti l’idoneità al lavoro e la prestazione dell’attività e l’altro inerente all’asserito obbligo di coinvolgere altri lavoratori nella sorveglianza delle condizioni di salute di un dipendente, anche tenendo conto della normativa in ordine alla privatezza dei dati sensibili.

 

Nel caso in esame, infatti, la prescrizione del medico del lavoro, che pure aveva dichiarato idoneo il lavoratore allo svolgimento delle mansioni affidategli, aveva ­ compreso disposizioni non solo sul tipo di prestazione (divieto di lavoro in quota o su carrelli), ma anche sulla conformazione dei locali nei quali detta attività doveva essere prestata, essendo stata formulata la prescrizione di non adibire il lavoratore ad attività in ‘ambiente confinato’, e sulla modalità, essendo previsto che egli non svolgesse lavori ‘in solitario’.

 

Così definiti i termini, è apparsa corretta l’interpretazione data dai giudici di merito, secondo i quali l’ambiente nel quale operava il lavoratore non era ‘confinato’, trattandosi di luogo in cui erano presenti più dipendenti, tanto è vero che proprio un collega di lavoro si era accorto che l’assenza del lavoratore si era prolungata oltre un tempo compatibile con un allontanamento non sospetto.
Né era possibile prendere in considerazione la contestazione formulata dalla parte civile secondo la quale, benché in luogo non confinato, il lavoratore che operava su due postazioni all’interno dello stesso ambiente, potesse considerarsi addetto ad un lavoro ‘in solitario’, non essendo la seconda visibile da altri dipendenti, pur operanti nel medesimo luogo.

 

Con riferimento al secondo aspetto, relativo alla possibilità, per il datore di lavoro, di esigere da altri lavoratori di assicurare la sorveglianza sul lavoratore affetto da patologie, che quando si manifestino impongano un pronto intervento e alla necessità ipotizzata dalla parte civile di un affiancamento continuo o di affidare il reparto nel quale operava il lavoratore ad un ‘team leader’, la predisposizione di una simile organizzazione lavorativa, ha osservato la Sezione IV, avrebbe richiesto, in primo luogo, che i colleghi di lavoro fossero stati appunto messi a parte dal datore di lavoro delle informazioni sullo stato di salute del lavoratore e ciò, nondimeno, avrebbe implicato, ai sensi dell’art. 26 del c.d. Codice della Privacy, che l’interessato avesse espresso per iscritto il suo consenso alla diffusione dei dati sanitari in possesso del datore di lavoro, non essendo a questi consentito diffonderli autonomamente o nell’impossibilità di ottenerlo, con il consenso di soggetti quali l’esercente legale della potestà o un prossimo congiunto.

 

Del tutto fuorviante, dunque, ha così proseguito la suprema Corte è apparso l’assunto della parte civile, secondo il quale il datore di lavoro avrebbe dovuto informare i colleghi che operavano con il lavoratore affinché lo sorvegliassero adeguatamente, e pretendere da loro un costante controllo. La disposizione relativa all’ambiente ‘non confinato’ ed alla modalità non ‘in solitario’, proprio per tenere conto della non esigibilità della sorveglianza continuativa del lavoratore da parte dei colleghi ed al divieto di rendere nota la patologia senza il consenso dell’interessato, “è stata rivolta a porre il lavoratore in una condizione di ‘visibilità’ da parte dei terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente male e perde i sensi, come accade nelle crisi epilettiche del tipo descritto, è immediato l’allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze”.

 

La prescrizione imposta al datore di lavoro, quindi, era stata quella di apprestare una postazione lavorativa che consentisse di ‘favorire’ il soccorso, non certo quella di ‘sorvegliare continuativamente’ l’interessato, ponendogli accanto un ‘lavoratore sentinella’, che lo seguisse ovunque egli avesse ritenuto di recarsi, nel corso della giornata lavorativa. Anche in questo caso, in definitiva, era da ritenere esclusa la condotta ascritta all’imputato.

 

La sentenza impugnata, ha così concluso la suprema Corte, pur escludendo in radice la sussistenza delle condotte colpose ascritte agli imputati, aveva comunque sottolineata l’abnormità della condotta del lavoratore che, consapevole della sua malattia, si era allontanato dalla sua postazione per recarsi in un luogo appartato, buio e molto difficile da raggiungere, finanche nascosto, senza avvertire nessuno e per ragioni ignote.

 

Al rigetto del ricorso è conseguita la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.