Sui sistemi di protezione delle attrezzature di lavoro
Una sentenza questa che si va a commentare sulla sicurezza delle macchine e sul comportamento corretto o meno del lavoratore addetto al loro utilizzo. E’ stata emessa dalla Corte di Cassazione a seguito di un ricorso presentato dal datore di lavoro di una azienda condannato per l’infortunio occorso a un lavoratore dipendente, tornitore specializzato, nel mentre eseguiva la pulitura di un “tornio in fossa” da alcuni trucioli rimasti incastrati tra la ruota di un treno e il rullo di trascinamento. Nel fare tale operazione lo stesso aveva subito l’amputazione di tre dita della mano destra risucchiata dal macchinario che era in movimento.
L’addebito mosso al datore di lavoro era stato quello di avere violato l’art. 71, comma 1, del D. Lgs. n. 81/2008 per avere messo a disposizione del dipendente un macchinario sprovvisto di un’adeguata protezione che impedisse di raggiungere la zona pericolosa della macchina stessa. Le norme di prevenzione degli infortuni infatti prevedono che se gli elementi mobili di una attrezzatura di lavoro presentano il rischio di un contatto meccanico che può causare incidenti, essi devono essere dotati di protezioni o di sistemi protettivi che impediscano comunque l’accesso alle zone pericolose o che arrestino i movimenti pericolosi prima che sia possibile accedere alle zone in questione (Punto 6.1. dell’All. V del D. Lgs. n. 81/2008). Se poi per effettive esigenze della lavorazione non fosse però possibile proteggere o segregare in modo completo gli organi lavoratori e le zone di operazione pericolose, la parte dell’organo lavoratore o della zona di operazione non protetta deve essere limitata al minimo indispensabile richiesto da tali esigenze e si devono adottare misure per ridurre al minimo il pericolo (Punto 6.5. dell’All. V dello stesso decreto legislativo).
A seguito del ricorso presentato dal datore di lavoro che aveva evidenziato un comportamento scorretto del lavoratore per avere voluto raggiungere le parti in movimento pericolose del macchinario benché lo stesso fosse in movimento, la suprema Corte ha rigettato il ricorso stesso sostenendo che non era stata operata una adeguata valutazione del rischio di un contatto meccanico con le parti in movimento e che era stata riscontrata conseguentemente una carenza di programmazione dei presidi idonei quanto meno a contenere il rischio stesso.
Il fatto e l’iter giudiziario
La Corte di Appello ha riformato nel solo trattamento sanzionatorio (previa concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod.pen. e sostituzione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria), e ha per il resto confermata la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato il datore di lavoro e direttore operativo di una azienda alla pena ritenuta di giustizia per il reato p. e p. dall’art. 590, commi 1 e 3 cod.pen., in relazione all’art. 583 comma 1, cod.pen., contestato come commesso con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. L’imputato era stato condannato per l’infortunio occorso a un dipendente, operatore specializzato in manutenzione rotabile, nel mentre operava nei pressi di un tornio cosiddetto “in fossa”. L’operaio, al termine del lavoro di tornitura delle ruote di un vagone ferroviario, aveva deciso di eseguire un’operazione di pulitura del macchinario da alcuni trucioli rimasti incastrati tra una ruota del treno e il rullo di trascinamento per cui si era procurato uno straccio e aveva cercato di eseguire la pulitura stessa dapprima a macchina spenta e poi accendendola. In tal modo, la sua mano veniva risucchiata dalla macchina in movimento nella zona di contatto tra la ruota e i rulli, cagionandogli l’amputazione di tre dita della mano destra, con conseguente indebolimento dell’organo di apprensione. Il datore di lavoro, secondo l’addebito, avrebbe violato in particolare l’art. 71, comma 1, del D. Lgs. n. 81/2008, per avere messo a disposizione dei dipendenti un macchinario sprovvisto di adeguati sistemi di sicurezza e nel caso in esame di un’adeguata protezione che impedisse di raggiungere la zona pericolosa della macchina.
Nel rigettare l’appello proposto dall’imputato e nel confermare di massima la sentenza di condanna di primo grado, la Corte territoriale ha sostenuto che l’infortunio si era sì verificato certamente a causa di un comportamento del lavoratore improntato a leggerezza e sconsideratezza, ma che lo stesso era comunque da imputare a una condizione di scarsissima sicurezza in cui versava l’intero comparto, successivamente corretta con l’adozione di misure preventive a seguito delle contestazioni mosse dagli operatori dell’ASL. La stessa Corte ha confermato l’addebito, mosso al datore di lavoro, quale titolare di una posizione di garanzia, di aver cagionato l’infortunio a causa dell’estrema facilità con cui i rulli erano accessibili al lavoratore; non era stata operata inoltre una adeguata valutazione del rischio per cui era stata riscontrata conseguentemente una carenza di programmazione dei presidi idonei quanto meno per contenere il rischio stesso.
La Corte territoriale, nell’assumere le sue decisioni, ha disattese anche le ulteriori argomentazioni difensive del ricorrente relative al comportamento della persona offesa che, secondo l’appellante, doveva giudicarsi come abnorme in quanto il lavoratore era impegnato in una mansione (quella della pulitura del tornio) rientrante fra quelle a lui affidate per cui il rischio concretizzatosi rientrava fra quelli governati dal datore di lavoro. Sotto il profilo sanzionatorio, invece, la Corte di merito ha riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo l’attenuante del ravvedimento post delictum e sostituendo la pena detentiva di 15 giorni di reclusione con quella pecuniaria corrispondente.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni.
Avverso la sentenza della Corte di Appello il datore di lavoro ha ricorso per cassazione adducendo delle motivazioni. Lo stesso ha contestato innanzitutto che gli fosse stata addebitata la responsabilità sotto il profilo della ritenuta inidoneità del macchinario a fini della sicurezza dei lavoratori. Richiamando molteplici elementi anche documentali deponenti per la conformità, sotto il profilo antinfortunistico, del tornio presso il quale era avvenuto l’incidente, il ricorrente ha evidenziato che per tali tipi di torni manuali, anche di generazione più recente, non sono previste né allestite protezioni totali degli organi mobili e della zona di lavoro dell’utensile il che, del resto, è consentito dal punto 6.5. dell’allegato V al D. Lgs. n. 81/2008.
Ciò che conta, ha aggiunto il ricorrente, è che i sistemi di protezione dei macchinari impediscano l’accesso involontario al macchinario in movimento, così da evitare un rischio di contatto accidentale tra gli arti dell’addetto e le parti in movimento; nel caso in esame invece, ha precisato, vi era stato un contatto volontario ed intenzionale con l’assunzione di un rischio elettivo da parte dell’operatore. Né è valso a provare il contrario, secondo lo stesso, quanto asserito dalla Corte di merito (come già dal Tribunale) circa il fatto che, dopo l’infortunio, avrebbe aderito alle prescrizioni dell’ASL, volte all’implementazione delle misure preventive del tornio, poi adempiute con la realizzazione di una “gabbia” presidiata da microinterruttori. Tali modifiche, infatti, si sono risolte nell’adozione di un joystick in grado di bypassare la protezione dei microinterruttori e non avevano evitata di fatto la possibilità per l’addetto di avvicinarsi ai rulli del tornio, anche se in movimento.
Come altra motivazione il ricorrente ha sottolineato il comportamento colpevole del lavoratore nella causazione del sinistro, comportamento che la Corte territoriale aveva ritenuto certamente negligente ed anche sconsiderato, ma non abnorme né tale da interrompere il nesso causale. L’operaio, infatti, secondo il ricorrente, era giunto al termine del lavoro quando ha deciso di intervenire manualmente sul macchinario per estrarre i trucioli metallici dopo avere avviato il macchinario stesso, senza aspettare il ritorno del capomacchina (che aveva spento il tornio) ed anzi approfittando della sua assenza, tenendo un comportamento abnorme in quanto del tutto imprevedibile e insuscettibile di controllo da parte del datore di lavoro. Il ricorrente ha richiamato, altresì, alcune decisioni nella giurisprudenza di legittimità in ordine all’abnormità della condotta del lavoratore che operi al di fuori delle direttive ricevute ed introduca un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto a quello originario.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Quanto al primo motivo, la stessa ha ricordato che il datore di lavoro è portatore dell’obbligo stabilito dall’art. 71 del D. Lgs. n. 81/2008, in base al quale lo stesso deve mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza di cui allo stesso decreto legislativo, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi. Lo stesso art. 71, ha precisato la Sez. IV, fa obbligo al datore di lavoro o a un suo delegato di verificare la sicurezza delle macchine introdotte nella propria azienda e di rimuovere le fonti di pericolo per i lavoratori addetti all’utilizzazione delle stesse, a meno che queste non presentino un vizio occulto.
E’ noto altresì, ha precisato ancora la Sez. IV, che, in base al punto 6.1. dell’allegato V al predetto decreto legislativo, “se gli elementi mobili di un’attrezzatura di lavoro presentano rischi di contatto meccanico che possono causare incidenti, essi devono essere dotati di protezioni o di sistemi protettivi che impediscano l’accesso alle zone pericolose o che arrestino i movimenti pericolosi prima che sia possibile accedere alle zone in questione”. Lo stesso allegato V al testo unico ha stabilito comunque al punto 6.3 che, quando sia tecnicamente possibile, sia previsto sul macchinario pericoloso l ‘apposizione del dispositivo di blocco e sia previsto, altresì, in base al punto 6.5., che, quando per effettive esigenze della lavorazione non sia possibile proteggere o segregare in modo completo gli organi lavoratori e le zone di operazione pericolose delle attrezzature di lavoro, la parte di organo lavoratore o di zona di operazione non protetta deve essere limitata al minimo indispensabile richiesto da tali esigenze e devono adottarsi misure per ridurre al minimo il pericolo.
L’incidente verificatosi nel caso in esame quindi, ha precisato la suprema Corte, era stato dovuto oltre che a un’iniziativa certamente imprudente del lavoratore anche al fatto che non era stato impedito da alcun dispositivo l’accesso alle parti in movimento del macchinario, né era risultato che fossero stati adottati a tal fine accorgimenti che potessero quanto meno limitare tale accesso. Il fatto stesso, ha aggiunto la Sezione IV, che come rilevato nello stesso ricorso fosse prevista una apposita procedura per la pulitura del tornio in sicurezza fa capire che il rischio derivante dal contatto tra l’addetto e le parti in movimento della macchina era noto e prevedibile e ciò indipendentemente dal fatto che detta procedura non sia stata osservata dalla persona offesa.
Il macchinario, ha così proseguito la suprema Corte, era certamente obsoleto e totalmente privo di dispositivi che impedissero o anche solo limitassero la possibilità che gli addetti raggiungessero le parti in movimento, con conseguente rischio di incidenti del tipo di quello verificatosi. Abbastanza eloquente era risultato il fatto che l’azienda, successivamente all’infortunio, si fosse uniformata alle disposizioni impartite dall’ASL introducendo un sistema che, grazie a una delimitazione fisica dell’accesso nella zona dei rulli e all’impiego di due motori autofrenanti, ha limitata le possibilità di avvicinamento al macchinario (pur non impedendolo del tutto). Se tale dispositivo fosse stato applicato in data antecedente l’incidente, il lavoratore sarebbe stato verosimilmente dissuaso dal tentare la pulitura del tornio con le modalità note, o comunque avrebbe avuto ben maggiori difficoltà nell’azzardare detta manovra.
Manifestamente infondato è stato ritenuto infine dalla Corte di Cassazione il secondo motivo di doglianza, con il quale il deducente aveva qualificato il comportamento del lavoratore nell’occorso come abnorme ed idoneo a interrompere il nesso di causalità tra la condotta contestata e l’evento. Correttamente la Corte territoriale, secondo la Cassazione, aveva escluso che il comportamento dell’operaio potesse considerarsi abnorme. In verità, ha precisato ancora, le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro perseguono il fine di tutelare il lavoratore persino in ordine ad incidenti derivati da sua negligenza, imprudenza od imperizia, sicché la condotta imprudente dell’infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio inerente all’attività svolta dal lavoratore ed all’omissione di doverose misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro.
In proposito deve considerarsi, alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità sul punto, che è interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è “interruttivo” (per restare al lessico tradizionale) non perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare.
Nel caso in esame è di tutta evidenza, ha così concluso la Corte di Cassazione, che la condotta del lavoratore si era inserita pienamente, e in modo tutt’altro che imprevedibile o eccentrico, nell’area di rischio affidata alla gestione del datore di lavoro da un lato perché questi, sul piano generale, era affidatario in base all’art. 71 del D. Lgs. n. 81/2008 della posizione di garanzia connessa alla messa a disposizione dei dipendenti di strumenti e macchinari corredati dei necessari dispositivi di sicurezza e dall’altro perché proprio il rischio di un utilizzo inidoneo del macchinario era prevedibile e, in qualche misura, era stato previsto. Oltre a ciò, non era assolutamente possibile sostenere, come ha fatto il ricorrente, che il lavoratore stesse espletando mansioni estranee ai suoi compiti; sul punto, infatti, la sentenza impugnata aveva chiarito adeguatamente che la pulitura del macchinario rientrava tra le mansioni a lui assegnate ed aveva cadenza quotidiana, trattandosi di pratica essenziale per l’efficienza del macchinario.
Per quanto sopra detto la Cassazione ha in definitiva rigettato il ricorso e a seguito del rigetto ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.